In questo numero intervistiamo Elio Catania, Presidente di Confindustria Digitale, che ci spiega quanto la digitalizza- zione sia fondamentale per la crescita delle smart cities, per lo sviluppo occupazionale e per il benessere dei citta- dini.
La prospettiva di un mercato unico digitale è sempre più discussa a livello europeo. Come e in che misura l’Italia potrebbe beneficiare di un simile scenario
Non parlerei di prospettiva, ma di un’impegnativa costru- zione già in atto che risponde alla necessità di far recu- perare competitività all’economia europea, abbattendo le barriere legislative e regolamentari che attualmente frastagliano l’Ue in 28 singoli piccoli mercati. Nell’eco- nomia globalizzata nessun paese ce la può fare da solo, tanto più il nostro, che sull’innovazione tecnologica ha accumulato, com’è noto, un notevole ritardo. Per essere al pari della media europea, negli ultimi quindici anni, avremmo dovuto investire all’anno 25 miliardi di euro in più.Non averlo fatto ci è costato molto caro in termini di crescita economica, bassi tassi di produttività, arretra- tezza nell’adozione di Internet, nell’e-commerce, nello sviluppo delle competenze, fattori che ci mantengono agli ultimi posti delle classifiche internazionali. Secondo le stime del Parlamento Europeo, il mercato unico digi- tale potrebbe generare 415 miliardi di crescita all’anno e centinaia di migliaia di posti di lavoro. Recenti studi stimano che la digitalizzazione di prodotti e servizi por- terà più di 100 miliardi di nuove entrate per l’industria per anno in Europa nei prossimi cinque anni. Il mercato unico digitale, con la sua dimensione continentale, rap- presenta un’occasionestrategica per il nostro Paese non solo per colmare il ritardo d’innovazione, ma per conso- lidare la nuova fase dicrescita che si è aperta negli ultimi mesi, grazie anche alla messa in cantiere di alcuni grandi progetti di trasformazione digitale degli asset produttivi e infrastrutturali, fra cui i programmi sullo sviluppo della bandaultra larga, sulla crescita digitale, il piano Industria 4.0, il piano sulla digitalizzazione della Pa.
Sviluppo del digitale equivale a aumento dei posti di lavoro. Quali sono le aree che offro- no maggiore potenziale di crescita?
Nel prossimo periodo la nuova occupazione proverrà principalmente da tre aree. Dall’espansione del settore Ict, che dal2015 ha ripreso a crescere a ritmi nettamen- te superiori al PIL (nel 2017 le stime prevedono una crescita vicina al 3%contro l’1,5% del PIL); dalla trasfor- mazione digitale della manifattura secondo Industria 4.0; dalle nuove attività che si svilupperanno con la “servi- tizzazione” dell’industria (progettazione, ma soprattutto monitoraggio dei prodotti dopo lavendita attraverso la sensoristica in settori quali: abbigliamento, alimentare, salute, ambiente, mobilità). Nella misura in cui l’econo- mia si digitalizza, sviluppando e-commerce, Industria 4.0, servizi on line, pagamenti elettronici, Internet delle cose, e-government, le competenze digitali rappresenteranno la “cassetta degli attrezzi” necessaria per svolgere qual- siasi attività. Nel contempo una trasformazione del ge- nere ha bisogno di competenze tecniche specifiche. Ad esempio l’implementazione dell’Internet delle cose sta già facendo emergere una serie di profili nuovi, descritti da termini inglesi come il Business Transformation Spe- cialist, il Cloud broker, il Network Programmer , il Big Data Analyst, il Data Scientist. E molti altri profili che oggi è ancora difficile immaginare, sono destinati a cre- arsi sulla spinta dell’accelerazione digitale.
Semplificando l’attuale scenario economico potremmo dire che “o sei digitale o sei fuori mercato”. Le nostre aziende hanno acquisito questa consapevolezza o mostrano ancora delle resistenze?
Oggi soltanto il 10% delle nostre Pmi ha un livello di intensità digitale accettabile per competere sul mercato internazionale. Giocano a sfavore della digitalizzazione sia la scarsità di grandi imprese le quali, invece hanno un ruolo fondamentale nella trasformazione dell’industria, che la prevalenza delle piccole imprese le cui caratteri- stichedimensionali non facilitano lo sviluppo di capacità e visione necessari per cavalcare in proprio l’innova- zione. Ma credo che le cose stiano cambiando. Come Confindustria stiamo percorrendo l’Italia, incontrando centinaia di imprenditori, inun’opera di sensibilizzazione che non ha precedenti, che mira a raggiungere la più am- pia platea di Pmi e a sostenerleconcretamente nel per- corso di trasformazione competitiva digitale. E in questo giro abbiamo conosciuto anche un’Italiaimprenditoriale sorprendente. Imprese, anche molto piccole, sconosciu- te, che si occupano di produzioni tradizionali come, per esempio, la ceramica, l’agricoltura, la metalmeccanica, che utilizzando le nuove tecnologie sono riuscite a cre- scere, a esportare a diventare leader nel loro settore e conquistare nuovi mercati. Il limite di questa realtà sta nell’eccellenza individuale che non riesce a fare sistema. Abbiamo incontrato il mondo delle start up. In Italia ne esistono quasi 8mila, dietro vi sono tantissimi giovani, 30 -40 mila che stanno scommettendo il proprio futuro. Ma a questa grande vivacità non ci sono ancora rispo- steefficaci. Queste neo imprese innovative fanno troppa fatica a trovare una exit, a individuare una prospettiva di sviluppo. Oggi in Italia si investe in termini di ventu- re capital 160 milioni di euro l’anno. In Inghilterra sono duemiliardi e mezzo di euro. Vi sono centinaia di poli tecnologici, di lab, di iniziative sulle nuove tecnologie, peccato chesono scoordinate fra di loro, non incidono, non graffiano sul mercato, non portano al nostro siste- ma, fatto dipiccole e medie imprese, quelle capacità di trasformazione di cui hanno bisogno per rendersi più competitive.
Il ministro Calenda vi ha riconosciuto un ruo- lo decisivo con i digital innovation hub per la diffusione della conoscenza di Industria 4.0 tra gli imprenditori sul territorio. A che pun- to siamo oggi?
I Digital Innovation Hub nascono proprio dalla consa- pevolezza che, in un tessuto produttivo come il nostro, per sfruttare al meglio le nuove tecnologie bisogna fare sistema. L’idea chiave è capitalizzare le competenze e le best practices già presenti sul territorio, mettendole a fattor comune, valorizzandole come elemento sistemico dicontaminazione digitale dell’economia italiana e acce- lerazione della crescita. Per questo stiamo procedendo allacreazione della rete nazionale dei Digital Innovation Hub presso le sedi territoriali di Confindustria. Si trat- ta di 22 Hub dislocati in tutte le regioni che vanno a costituire i punti di riferimento per aiutare le imprese a compiere i passaggi chiave della trasformazione digi- tale. Sono concepiti come soggetti giuridici autonomi ma snelli, con alla guida esperti che conoscono i bu- siness prevalenti nel territorio e le tecnologie migliori per aumentare lacompetitività delle imprese. Dovranno inoltre coordinare i diversi attori dell’ecosistema terri- torialedell’innovazione, superando il modello classico di trasferimento tecnologico in modo da fare breccia nelle piccole imprese italiane.
Un sistema digitale avanzato è un driver im- portante di sviluppo per la smart city. Che scenario si immagina per il prossimo decen- nio?
Immagino la città intelligente come quella che ha la capa- cità di ascoltare i suoi cittadini, le sue imprese per orien- tare le priorità e le scelte verso ciò che realmente serve ed è utile per migliorare la vita di tutti. Servizi intelligenti devono significare semplicità di accesso, di uso, di frui- bilità. La nascita dei tanti incubatori e dei fab-lab nelle cittàdimostra quanto sia importante il coinvolgimento di imprese e cittadini nella co-creazione di questi servizi, sfruttando anche le idee innovative delle tante start-up. L’Italia è uno dei paesi più creativi al mondo e abbiamo tante buone pratiche e soluzioni intelligenti, ma fatichia- mo a fare sistema e a condividere i successi, soprattut- to sull’asse Nord-Sud. Non amo le classifiche, ma i dati dell’ultimo rapporto “iCityrate” di qualche giorno fa di- mostrano questo scollamento anche territoriale. Dob- biamo cominciare a pensare alle città non sulla scorta del tradizionale campanilismo italico, ma come a ecosi- stemi digitali integrati, le cui capacità progettuali si basi- no su una Data Platform condivisa, accessibile alla plura- lità dei portatori di interesse, persone giuridiche private epubbliche ovvero enti privati o pubblici, nell’ambito di un processo complessivo e integrato di trasformazione digitale del Paese.
Lei è un profondo conoscitore del settore dell’ICT. In che modo questi strumenti pos- sono rendere più semplice la vita dei citta- dini?
L’informatica è entrata nelle società industrializza- te mezzo secolo fa, ma negli ultimi anni si è via via af- fermato un fenomeno nuovo, internet, che con la sua pervasività ha modificato i paradigmi classici: le nuove tecnologie interconnessecol protocollo IP si innestano oggi all’interno di ogni processo. Così vorrei rovesciare l’ottica, osservando che là dove nonc’è internet, la vita è più complicata, più difficile. Penso, per esempio, ai servizi pubblici. E’ evidente a tutti quanta differenza può fare nella qualità della vita se il cittadino è costretto a fare lunghe file agli sportelli o a trasportare personalmente informazioni da un’amministrazione all’altra, invece di poter risolvere le sue pratiche con un semplice click, via web. Senzaparlare dell’interconnessione crescente nelle attività produttive, professionali, nel quotidiano, che già oggi ci semplifica la vita con applicazioni nei servizi, nella sicurezza, nelle transazioni commerciali, in quelle banca- rie, nella domotica, nella medicina.
Il tema degli open-data è strettamente con- nesso a quello del digitale. Che potenziale potrebbero avere nel migliorare la capacità dei policy-maker? Il potenziale è direi illimi- tato.
Anche in questo caso dobbiamo cercare di rovesciare l’ottica. Il nuovo paradigma non sono gli open data, ma i “big data aperti” e connessi ad internet. Sembra una differenza semantica, ma non è così. Un dato aperto è utile solo se è standardizzato, leggibile ed integrato via internet con milioni di altri dati, altrimenti può essere anche open, manon serve a creare informazioni utili e nuovi servizi a valore aggiunto. È chiaro che i policy makers per primi, masempre di più le aziende dei servizi possono trovare nella condivisione, elaborazione e tra- sformazione in informazioni di milioni di dati “pubblici” aperti, la chiave per trasformare il cittadino da “suddito” di un servizio a“cliente protagonista”. Per questo dob- biamo lavorare ancora molto all’elaborazione di proget- ti in partnershippubblico privato perché il mondo pub- blico detiene una miniera di informazioni che il mondo privato è in grado di trasformare in servizi migliori per i cittadini e le imprese. Per “uscire dai silos” occorre superare la tradizionale mentalità de “il dato è mio e me lo gestisco io” e abbracciare la convinzione che i dati pubblici siano un patrimonio dello Stato (e quindi di tutte le PP.AA.) e della società civile. Non esisteranno più proprietari, ma soltanto gestori a cui è affidato il compito di raccogliere, gestire e rendere disponibili i dati, ognuno per il proprio ambito di competenza.
Che peso hanno le politiche europee e quelle nazionali nell’indirizzare le città italiane ver- so un processo di “smartness”?
Un peso importante, perché creano una cornice comu- ne, linee guida omogenee e spingono a standardizzare i servizi e leapplicazioni.Tuttavia è del tutto evidente che ogni territorio ha le sue peculiarità e che ogni città ha un suo patrimonio“genetico” unico e inconfondibile su cui occorre innestare servizi specifici. Per questo sarà molto importante lo sviluppo della sensoristica: attra- verso l’IoT infatti possiamo governare in modo intelli- gente le singole peculiarità delle città e creare servizi customizzati, seppur nella cornice generale di cui Euro- pa e Stato nazionale devono essere protagonisti. InItalia con AgID e il Commissario Piacentini stiamo lavorando proprio in questa direzione, creando piattaforme nazio- naliche abilitano i servizi offerti sul territorio, anche per rendere le città smartness. Penso alla piattaforma dei pagamenti pubblici (PagoPA che in un mese solo nella città di Milano ha visto aumentare i pagamenti on-line della tariffa rifiuti del 40%, liberando i cittadini dal peso di lunghe fila agli sportelli); alla piattaforma dell’Anagrafe che consentirà per esempio a tutti i cittadini di richie- dere certificati senza muoversi dalla città di domicilio a quella di residenza. Penso alla piattaforma SPID per il riconoscimento sicuro dell’identità digitale on-line. Ma credo che la più importante delle piattaforme in via di realizzazione, ricollegandoci al tema dei Biga Data aperti, sia quella del DAF, il Data Analitycs Framework: Imma- giniamo di non dover più riempire l’ennesimo modulo cartaceo inserendo sempre le stesse informazioni o di poter gestire con un click le nostre informazioni anagra- fiche e di domicilio, visualizzare la posizione aggiornata della nostra impresa e gestire le comunicazioni con la PA; immaginiamo edifici intelligenti che allertano quan- do hanno danni strutturali; immaginiamo reti stradali in grado di interagire con strumenti di controllo del traf- fico e centri di monitoraggio; immaginiamo di essere in pieno possesso delle informazioni pubbliche, di poter visualizzare comevengono spese le nostre tasse, qual è il livello dei servizi che riceviamo e, infine, che tutto questo sia messo a servizio—con le dovute precauzioni in tema di privacy e security—della società civile, che potrà utilizzare i dati pubblici persviluppare nuovi servizi e creare nuovo valore e occupazione, dando final- mente vita alla tanto invocata API economy. Ecco tutto questo si può fare se apriamo e mettiamo a disposizione del DAF il patrimonio di dati pubblici, li condividiamo in modo standardizzato, li interconnettiamo, li analizziamo attraverso questa piattaforma nazionale e ci facciamo sviluppare servizi, anche di tipo locale, sopra.
L’idea di una stretta integrazione tra tra- sporto urbano e trasporto ferroviario a lun- gapercorrenza si sta affermando nel dibatti- to pubblico. Come valuta questa prospettiva alla luce delle sue esperienze in FS ed ATM? Nessun operatore economico può restare “seduto” sulproprio business, soprattutto in questi anni in cui l’economia è sottoposta all’onda disruptive delle nuo- ve tecnologie interconnesse. Questo vale anche per il mondo dei trasporti, dove l’esigenza del cliente è oggi, anche e proprio grazie alle tecnologie, quella di avere un servizio più efficiente e puntuale. La mobilità è una piattaforma diintegrazione per eccellenza. Se io utente ho l’esigenza di spostarmi. grazie alle tecnologie voglio essere facilitato nelmio viaggio. E lo stesso spostamento deve rappresentare una esperienza positiva e gradevole. Questo deve avveniresu più livelli. Il primo, integrazione tariffaria e del titolo di viaggio. Il secondo sulla dispo- nibilità e integrazione deivari mezzi di trasporto, dal treno alla metro, all’autobus, al tram, al car sharing, al bike sharing. Mezzi tutti che devono rispondere a una distribuzione in rete ottimale per le connessioni. Altro livello è quello informativo, chenon può che essere ca- pillare e completo, a portata del mio device intelligente
, che ormai è parte integrante del nostro abito. Tutto questo ha un’importante implicazione progettuale. I vari operatori devono potersi connettere e operare secon- do un programma di mobilità territoriale ben definito nellasua architettura e ben gestito dalle amministrazio- ni pubbliche. Circa ulteriori livelli di integrazione, quale societaria e multimodale, va detto che se da un lato la concentrazione può aiutare, dall’altro una sana concor- renzanel mercato credo sia presupposto fondamentale per maggiore qualità dei servizi offerti. Quindi un giusto punto di equilibrio, per evitare concentrazioni strategi- camente dannose e garantire sempre contendibilità.
da: SmartCity & MobilityLab n. 21 (Settembre-Ottobre 2017)